mercoledì 23 aprile 2008

Turandot: Croce e Delizia dell'Opera italiana (cap. 5)

La trama

Atto primo.

È il tramonto a Pechino, in un non meglio precisato “tempo delle favole”. Lungo gli spalti delle mura della città, che brilla in lontananza, una lugubre sequenza di pali con infissi i teschi dei pretendenti sconfitti dalla principessa Turandot. Gli spalti sono interrotti da un loggiato e da un grande gong di bronzo, il cui suono sancisce l’inizio della sfida tra la principessa e i suoi pretendenti. Tre rintocchi, tre enigmi.
Come è abitudine di Puccini siamo subito accompagnati nel vivo dell’azione, senza introduzioni strumentali (ouvertüre o sinfonie). Un mandarino recita le regole della prova che i pretendenti dovranno superare: la principessa Turandot andrà in sposa a chi saprà sciogliere i tre enigmi che lei stessa proporrà; il pretendente sconfitto sarà accompagnato al patibolo, dal boia.
Il principe di Persia è stato sconfitto dagli indovinelli della principessa e attende insieme al popolo il momento in cui salirà sul patibolo per pagare la sconfitta con la propria vita. In un’atmosfera tesa si attende il sorgere della luna.
La folla si dirige verso la reggia invocando a gran voce il carnefice. Nella calca viene travolto il vecchio Timur, re tartaro in esilio, aiutato dalla piccola schiava Liù. La ragazza chiede aiuto e nella folla i due ritrovano il principe Calaf, figlio di Timur, che entrambi credevano morto da tempo.
Si intuisce subito del forte affetto che la piccola Liù prova verso il principe, il quale un giorno nel proprio palazzo le aveva sorriso, conquistandola con quel semplice gesto e inducendola ad affiancare Timur nelle sofferenze della vecchiaia e dell’esilio.
La luna viene invocata dal popolo con evidenti accenni al suo ruolo di portatrice di morte: faccia pallida, testa mozza. La morte del principe di Persia è ormai vicina e il corteo avanza verso il patibolo dove presto giungerà anche il carnefice. Una schiera di ragazzi intona la melodia «là sui monti dell’est», composta su un tema originale cinese che Puccini affiancherà nel corso dell’opera alla presenza fascinosa della principessa.
L’atmosfera del tramonto si trasforma un poco alla volta e con il sorgere della luna tutto viene ammantato da una tenue luce argentea. La luna è sorta.
Turandot appare sul loggiato e un raggio di luna la illumina, evidenziandone il tartareo splendore. Intanto la folla ha smesso di incitare il carnefice e di evocare il sorgere della luna. Ora tutti chiedono la grazia per il principe di Persia, respinta con decisione dalla crudele Turandot.
La musica accompagna la scena con toni lamentosi e solenni allo stesso tempo e il coro che chiama «principessa, principessa», implorando la grazia, raggiunge toni di incredibile fascino ed emotività.
Proprio nel momento in cui la luna illumina Turandot, il principe Calaf la vede per la prima volta e ne rimane subitaneamente affascinato. Ormai anche lui è prigioniero del fascino della principessa e deciso più che mai a tentare la sorte.
Avanza verso il gong per lanciare la sua sfida, ma molti cercano di dissuaderlo. Dapprima tenta il padre, implorandolo di rimanere al suo fianco dopo tanti anni di sofferta lontananza.
Tenta anche la piccola Liù, cercando di convincerlo con il suo amore, rimasto segreto per tanti anni.
Ma sono proprio i cancellieri della crudele a cercare con più insistenza di fare cambiare proposito al giovane. Iniziano con la descrizione delle efferate violenze che si compiono a palazzo («Qui si strozza! Si sgozza! Si trivella…»), per poi passare a un poco convincente ridimensionamento della bella principessa («se la spogli nuda, è carne, carne cruda…») per concludere con le molteplici alternative che la vita riserva a ognuno di loro.
Nulla serve a dissuadere il giovane Calaf, nemmeno l’ultimo estremo tentativo della piccola schiava Liù («signore, ascolta») che anticipa la meravigliosa aria finale del primo atto («non piangere, Liù»), prima che la musica esploda nell’ultima sequenza in cui si intrecciano le emozioni di tutti i personaggi, in un finale esplosivo e avvolgente, nel quale il principe Calaf suona il gong e dichiara apertamente di voler sfidare la sorte, rischiando la propria vita con gli enigmi di Turandot.

Atto secondo.
Quadro primo. Dopo le emozioni travolgenti di tutto il primo atto, il quadro primo che apre il secondo è una sorta di intermezzo, inteso a presentare in modo accurato i tre ministri della principessa e a immergere con maggior dovizia l’ascoltatore nel fatato mondo pechinese, finora ancora astratto e distante.
Ping, Pang e Pong si alternano in un terzetto che li umanizza un poco alla volta. I tre ministri stanno ripassando i protocolli sia del rito funebre sia di quello nuziale, non sapendo quale dovranno celebrare al sorgere della nuova alba.
Mentre sono intenti nel loro lavoro si lasciano andare ai ricordi del tempo passato, quando ancora la crudeltà della gelida principessa era da venire. E mentre divagano si estraniano dalla realtà, immaginando la resa della bella carnefice e la preparazione del rito matrimoniale e della alcova per la prima notte d’amore. Ma il tempo stringe e i tre riprendono celermente i preparativi.
Quadro secondo. La scena torna nel vivo e il rito degli enigmi è ormai imminente. La corte imperiale è pronta sui gradini della reggia. Un coro solenne accompagna in scena la bella principessa affiancata dall’esile e stanco padre, l’imperatore Altoum.
Netta è la contrapposizione dei due personaggi tenorili, quando il vecchio imperatore, con voce debole e implorante, chiede al giovane di rinunciare alla inutile prova («basta sangue, giovine và») e Calaf risponde seccamente per tre volte consecutive, con forza e vigore giovanile, di aver ormai preso la decisione finale («figlio del cielo, io chiedo d’affrontar la prova»).
Il rito ha finalmente inizio. La cantilena iniziale ripete le regole della prova e tutti attendono che sia la principessa a prendere parola. La donna spiega le ragioni di quel macabro rituale («in questa reggia or son mill’anni e mille») poi inizia a proporre i tre enigmi.
Calaf risponde in modo corretto tutte e tre le volte (speranza, sangue, Turandot, soluzioni strettamente legate alla simbologia dell’opera) e finalmente per la prima volta dopo tanti anni la bella Turandot è sconfitta.
La principessa non accetta il risultato e si rivolge al padre rivendicando la propria sacralità e minacciando Calaf con tutto il suo odio («non sono tua!»). Le sue suppliche sono vane poiché il padre ribadisce che è il rito a essere sacro e in quanto tale deve essere rispettato («è sacro il giuramento»).
La possibilità di salvezza per la principessa arriva proprio dalla generosità di Calaf e dalle sue parole che ci accompagnano verso la chiusura del secondo atto, anticipando la celebre aria «nessun dorma» del terzo: «il mio nome non sai, dimmi il mio nome, dimmi il mio nome prima dell’alba e all’alba morirò!»

Atto terzo.
Quadro primo. Gli araldi diffondo per tutta la città di Pechino il volere della principessa. Nessun dorma in Pechino, e ognuno si adoperi a scoprire il nome dello straniero.
Il principe Calaf attende impaziente l’arrivo della nuova alba e il momento in cui Turandot sarà sua. È il momento della classica aria tenorile pucciniana con uno splendido «nessun dorma» di grande impatto e slancio.
In molti si avvicinano al principe cercando di convincerlo a pronunciare il suo nome, ma il rifiuto di Calaf è sempre secco e deciso. Irrompono quindi in scena un gruppo di uomini che trascinano Timur e Liù, credendo di poter strappare loro il nome dello straniero.
Ancora una volta è la piccola Liù a prendere il ruolo di protagonista. È fermamente decisa a difendere il suo signore e affronta con decisione la principessa, sopporta le torture e infine si suicida come estremo sacrificio d’amore.
Con la morte della piccola Liù termina il lavoro del maestro Puccini. L’ultima parte dell’opera è completata come già accennato da Franco Alfano sulla base di appunti lasciati dal compositore.
La folla si allontana e per la prima volta Calaf e Turandot rimangono da soli. Calaf è ancora convinto di poter conquistare la bella principessa e con impeto si getta verso di lei, baciandola.
Inizia così il crollo finale della crudele principessa che scopre per la prima volta emozioni tanto forti e incontrollabili. Calaf comprende di aver finalmente sgelato il freddo cuore della rivale e poco prima dell’alba sussurra il suo nome, consegnando il proprio destino nelle mani di Turandot.
Quadro secondo. È la scena conclusiva, in realtà molto breve. L’alba è ormai giunta e la principessa conosce il nome dello straniero. Accompagnata dal padre e dai dignitari di corte Turandot si presenta al popolo dichiarando di conoscere il nome del principe ignoto. Tutti attendono la rivelazione e tra lo stupore del popolo la principessa dichiara a tutti il nome bramato: Amore.
Il dolore e la tragedia sono finalmente alle spalle e l’opera si chiude con un coro di giubilo.

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