sabato 5 aprile 2008

Turandot — Croce e Delizia dell'Opera italiana (cap. 1)

Inauguriamo il nostro nuovo Blog dedicato al mondo della Lirica con un saggio sulla Turandot di Giacomo Puccini. Il saggio è articolato in 12 capitoli che toccheranno vari aspetti della creatività pucciniana e in particolar modo della sua ultima, inimitabile, composizione. Buona lettura e... lasciate i vostri commenti! Andrea Franco

Prima di poter affrontare l’analisi di un’opera importante e meravigliosa quale è la Turandot di Giacomo Puccini, è doveroso dare alcune informazioni preliminari riguardo la storia stessa dell’Opera, fenomeno di costume e cultura che ha attraversato brillantemente oltre quattro secoli di storia.
Ogni grande appassionato è solito pensare all’Opera così come io stesso abitualmente la scrivo, con la “O” maiuscola (ma da qui in avanti userò la forma “opera” per non fare confusione), immutabile e sacra, adorabile e intramontabile. Ma come ogni altro fenomeno di costume che attraversa varie epoche anche l’opera così come la conosciamo e l’apprezziamo non è sempre stata uguale a sé stessa. È cambiata nella forma come nei contenuti, nella complessità come nella resa teatrale.

Le prime opere documentate risalgono alla fine del sedicesimo secolo, ma se vogliamo fissare una data concreta e in modo altrettanto tangibile fornire dei nomi, la composizione alla quale dobbiamo fare riferimento è la Dafne di Jacopo Peri e Jacopo Corsi, la cui prima rappresentazione risale presumibilmente all’anno 1594. Pietro Bardi, un loro contemporaneo, descriveva con queste parole la semplicità strumentale della rappresentazione: «messa in musica dal Peri con poco numero di suoni, con brevità di scene e in piccola stanza rappresentata.»
Non v’è dubbio che di acqua sotto i ponti ne sia passata parecchia. Basti pensare alle suggestive scenografie della stessa Turandot; ma volendo proporre esempi diversi possiamo citare anche altre illustri opere quali Adriana Lecouvreur, L’elisir d’amore, Norma, Trovatore e tante altre ancora. Scenografie di grande impatto, ma non solo: anche grande ricercatezza strumentale e coreografica. Opera, quindi, con la maiuscola.
Nella lunga e ricca storia di quest’arte sono moltissimi i compositori che hanno ceduto al fascino della rappresentazione teatrale e che hanno dedicato risorse del proprio estro alla composizione lirica. Geni tanto diversi l’uno dall’altro che solo ad accostarne i nomi possiamo meglio comprendere la complessità e la varietà del fenomeno: Puccini, Verdi, Mozart, Beethoven, Strauss, Donizetti, Ciaikovskij, Wagner… e la lista potrebbe essere davvero interminabile.
L’opera nasce in Italia e per molti anni il nostro stesso idioma è stato la lingua principe di questa forma d’arte musicale. Ogni autore degno di questo nome musicava prima o poi un libretto in lingua italiana (lo stesso Mozart, dopo le prime due esperienze operistiche all’età di undici anni, Die Schuldigkeit des ersten Gebotes e Apollo et Hyacinthus, si cimenta con un testo di Goldoni, La Finta Semplice, su libretto di Coltellini, per citarne una tra le meno note).
Nonostante questa importanza storica, un poco alla volta l’egemonia dell’italiano comincia a declinare e al giorno d’oggi, seppur la tradizione più importante parli ancora la nostra lingua, i libretti operistici vengono realizzati nelle più svariate lingue.
Una tradizione forte la nostra che, nonostante viva ultimamente un periodo di apparente difficoltà (apparente, a voler essere gentili), abbraccia i più grandi compositori mai esistiti. È difficile trovare una tradizione operistica che possa vantare nomi eccellenti quali Puccini, Verdi, Bellini, Rossini, Donizetti, Mascagni, Leoncavallo.

Wagner con le sue innovazioni ha saputo dare quella spinta verso una maggiore resa teatrale e ha saputo creare il giusto equilibrio tra musica e testo, tra melodia e dramma, ma il contributo maggiore alla storia dell’opera è ancora appannaggio dell’Italia.
E non possiamo parlare di opera se non menzioniamo anche tutti quei meravigliosi interpreti che nel corso dei secoli hanno saputo tradurre magnificamente le emozioni dei compositori, fino a toccarci nel profondo e risvegliare sensazioni che in taluni casi addirittura ignoravamo. Direttori d’orchestra, musicisti, cantanti e quanti altri collaborano alla realizzazione maestosa di quello che ogni volta può essere ritenuto un evento vero e proprio. Vedere una rappresentazione è come assistere ogni volta a una “prima”, con diverse sfumature e un diverso modo di rendere unica l’interpretazione. E un modo differente di porsi all’ascolto, un po’ spettatore e un po’ partecipe di incalcolabili emozioni tradotte in musica, in opera.
Sono molti gli interpreti passati alla storia per le loro doti eccelse o per il modo tutto personale di essere personaggio. In questo breve saggio non sarà possibile un’analisi approfondita dei vari timbri e dei vari stili dei grandi protagonisti dell’Opera mondiale, ma è certo che alcuni di loro con le proprie superlative capacità (e ci limitiamo solo agli ultimi decenni) hanno saputo in qualche modo rendere ancora più universale il linguaggio dell’Opera: i tre tenori (Pavarotti, Carreras, Domingo), Maria Callas, Mirella Freni, Leo Nucci, Ruggero Raimondi, Renato Bruson; fino a interpreti più recenti quali Roberto Alagna (da molti considerato il “quarto tenore”), Angela Gheorghiu (moglie di quest’ultimo e soprano di livello eccezionale), Anna Netrebko, Rolando Villazòn, Frank Lopardo, Gino Quilico e potremmo davvero continuare all’infinito (recentemente ho apprezzato il giovane Matthew Polenzani, spero si continui a parlare di lui), soprattutto andando indietro nel tempo.
Anche loro hanno fatto la storia dell’Opera e hanno contribuito a diffonderla e allo stesso tempo a portarla fino ai giorni nostri, in un processo ininterrotto di continuità e mutevolezza.

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